TERZO APPUNTAMENTO 
Ci siamo
Il nostro terzo appuntamento, aspettando il Premio sorellanza V edizione…
Etty Hillesum, un nome armonico, vibrante, bello. Ho incontrato questa donna, questa ragazza, grazie ad un’amica che mi coinvolse per una mostra in ricordo della Shoah. La protagonista era proprio Etty.
Ricordo ancora l’entusiasmo che mi rapì immediatamente: ringrazio Dio ancora oggi e la mia amica per quel grande dono.
Il diario di Etty è un dono all’umanità intera, un’opera senza tempo pregna di parole che sembrano scritte per durare eternamente. Un pensiero semplice che può aiutare tutti noi a vedere la vita con occhi diversi, un balsamo per me, del quale mi nutro ogni volta che vacillo per cose futili. Ogni volta che la mia anima “bussa”, penso a lei.
Una donna testimone di cosa significhi vivere un momento di trasformazione, arrivare fino in fondo, fino a seguire il destino del suo popolo.
“Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e lavorare sé stessi non è proprio una forma di individualismo malaticcio. Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo.”
Il dolore che attraversa Etty diventa un processo di trasformazione che può essere doloroso perché la costringe a rivedere le proprie abitudini o causa di sofferenza e comprende che ciò che sta accadendo le serve per accettare e superare i momenti di disagio e questo fa parte della sua crescita personale.
Comprende che la luce è la strada che conduce alla trasformazione e all’opportunità di completare ciò che sta facendo; le difficoltà che ha incontrato sulla sua strada le hanno fatto pensare che lasciar perdere sarebbe stato letale.
“La vita si svolge interiormente e lo scenario esteriore ha sempre meno importanza.”
“Bisogna combatterle come le pulci, le tante piccole preoccupazioni per il futuro che divorano le nostre migliori forze creative.”
Nella sua crescita ha cominciato ad attingere alle sue risorse di responsabilità comprensione e apertura. Nel suo diario, infatti, si scopre la sua forza di volontà, la capacità di resistenza e lascia comprendere come quest’ultima va coltivata con un continuo allenamento fisico, emotivo e spirituale, aiutandosi con applicazione e pazienza.
Scopre che amando e accettando sé stessa può raggiungere l’indipendenza emotiva e nel suo potere scopre i tesori interiori che le consentono di non cedere più il suo potere a nessuno e senza prendere nulla sul personale impara a lasciare andare perché lei sa che gli altri possono bloccarla e privarla della propria energia, anche senza volerlo.
Ha intuito nel ringraziare Dio i doni della saggezza e della creatività per vedere i suoi miracoli in modi nuovi e inaspettati. Ha imparato ad accettare e ad apprezzare l’aiuto di Dio con gratitudine e grazia lì dove sembra che Dio non ci sia più.
“E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio.”
In questa frase, tratta dal suo Diario (1941-1943) c’è l’immensità del pensiero di Etty Hillesum, una giovane donna ebrea olandese che all’età di 29 anni perse la vita nel campo di sterminio di Auschwitz, dove era stata deportata insieme ai genitori e al fratello Misha. Era il 30 novembre 1943. Quel giorno la barbarie nazista segnò la fine di una grande donna e di una grande scrittrice. Trucidando il corpo senza mai poter cancellare le sue umane parole.
Il primo pilastro della sorellanza è l’impeccabilità della parola
Il secondo è la capacità di non prendere le cose sul personale
Etty li incarna perfettamente…❤️
Stefania Guarracino

SESTO APPUNTAMENTO

Sesto appuntamento della rubrica sorellanza, aspettando la V edizione del nostro premio.
“Una santa confidente”
Portava sempre i capelli nero corvino raccolti dietro la nuca. Aveva un’espressione serena, gli occhi a mandorla, come le sue due sorelle, e un nasino piccolo, lì stagliato al centro del viso. Si chiamava Giovanna, ma tutti la chiamavano Anna. Aveva dieci figli, tanti se giudicati con i parametri del nostro tempo, un numero giusto per l’età in cui è vissuta, dove la famiglia era patriarcale e alle donne era affidato il ruolo di moglie e mamma. Lei però lavorava anche, trascorreva il pomeriggio a cucire su una macchina nera, una Singer con i bordini dorati, oggi attrezzo d’epoca. Il pomeriggio la sua casa si trasformava, tanti andavano da lei a trascorrere un po’ di tempo, era sempre disponibile per una chiacchiera in allegria, una buona parola, era una “santa” confidente dicevano tutti. Nel cortile in cui abitava era una personalità, soprattutto le ragazze amavano raccontarle i loro drammi, quando il cuore andava da una parte, ma il mondo intorno voleva consegnarlo da un’altra. Era una sorella per tutti, anche per le sue stesse figlie. Forte di tempra, dolce nello sguardo e nelle parole. La ricordo, perché nella sua morte si è consumata la verità di una vita, spesa per chi le stava intorno. La sua casa era frequentata anche da persone indigenti, una donna in particolare le faceva spesso visita, Idarella, non aveva marito, portato via dalla guerra, con tre ragazzi, ancora senza lavoro. Le dava una volta l’olio, una volta la pasta, una volta il pane, preso dalla credenza, anche duro, che lei avrebbe ammorbidito con l’acqua. La considerava un’amica, una sorella e la sosteneva sempre. L’ha sostenuta anche quando si è ammalata gravemente, non si sapeva bene cosa avesse, ma non aveva nessuno che la confortasse. In giro si diceva che avesse contratto una malattia infettiva, ma i medici non lo chiarirono mai. Anna andava tutti i giorni ad aiutarla, fino al suo ultimo giorno, perché quella malattia non le diede scampo. Anna rimase male, soffrì molto per quella perdita, pensava ai suoi ragazzi, adesso orfani, privati dell’affetto più grande. Era fine febbraio, faceva molto freddo. Il 2 marzo anche Anna cominciò a stare male, dolori e febbre, i medici non capirono. All’alba del 06 se ne andò, mentre intorno e controtempo cadevano fiocchi intensi di neve, lì nella pianura alle falde del Vesuvio. Solo più tardi si arrivò alla conclusione che avesse contratto un virus, forse proprio quello che aveva colpito la sua amica. Una verità scientifica non è mai arrivata, l’unica verità accertata è stata l’amore per il prossimo sempre, anche in un caso difficile come quello che ha vissuto ed impavidamente affrontato, sostenendo l’altra, l’amica, che nel suo immaginario fu qualcosa di più, per come l’amò, una sorella.
Io porto orgogliosamente il suo nome, quello meno usato, eppure credo di aver ereditato da lei non solo quello, insieme al colore dei suoi capelli, ma la sensibilità che l’ha resa unica e speciale per quanti l’hanno conosciuta. Nel celebrare la sorellanza, non ho potuto fare a meno che pensare a lei.
Sei marzo
Quel sei marzo, lasciato lì a penzolare,
senza il ricordo che sempre ti ho dato,
si muove nel vento delle mie debolezze e
torni, occhi mandorlati, capelli neri,
torni con il sorriso di chi vuole bene, e resti.
Sei marzo, che torto mi facesti”
Giovanna o meglio Anna incarna la sorellanza ed i suoi pilastri :
🌺L’impeccabilità della parola.
🌺Il non prendere nulla sul personale.
🌺Il non supporre nulla.
🌺Fare sempre del proprio meglio.
Giovanna Secondulfo
SETTIMO APPUNTAMENTO
In questi giorni credevo la penna mi avesse abbandonato, non trovavo la concentrazione per scrivere l’articolo del mese. Pazienza! Avrei raccontato di una donna del passato.
Ma lunedì 9 gennaio, nel corridoio della mia scuola incontro lei, la mia collega Fabiola. Avevo sentito parlare dell’incidente di suo figlio, avvenuto qualche anno prima, quando io ero in “aspettativa”…
I suoi occhi catturano immediatamente la mia attenzione, avrei voluto ritrovarmi fra le mani una penna magica per descrivere la forza dolce dei suoi occhi che brillavano e soffrivano contemporaneamente. Una donna luminosa, ferma, presente, attenta, calma, sofferente e umana.
Una docente impegnata, una donna innamorata, madre di due figli, Francesca e Marco.
Marco è un giovane ingegnere elettronico laureato a pieni voti, un ragazzo brillante, dal futuro luminoso, ricco di amici e sogni. Quel 24settembre successe qualcosa. Marco cercava il suo sketboard, un regalo di tanti anni prima. Quel giorno si doveva incontrare con gli amici per trascorrere un gioioso pomeriggio insieme. Quel tragico pomeriggio Marco volerà dal suo skateboard a testa indietro battendola violentemente sul cemento.
Erano le 19.30 quando Fabiola apprese dal suo amato marito che Marco era in ospedale per una caduta.
Corsero immediatamente pensando di trovarlo in ortopedia, ma purtroppo era già in rianimazione…
Da lì il calvario, lo consideravano già morto.
Poi un giovane neurochirurgo fa il primo miracolo… Marco si sveglia, lunghi periodi di ricovero, orribili esperienze di mala sanità. Fabiola mi racconta di un primario che derideva lei e suo marito per come erano presenti per il proprio figlio, un ricordo triste, comune a tante persone che si ritrovano in un luogo che per sua natura dovrebbe essere il più accogliente possibile e che spesso diventa invece un inferno. Ogni professione ha una sua deontologia, ogni cuore un suo ritmo e la gentilezza, l’accoglienza devono essere il perno principale della promessa di aiutare il prossimo.
Fabiola è una forza della natura, sembra una roccia con il sorriso del sole, mi piace immaginare Marco con la sua stessa forza.
Il cammino da fare è lungo, ma io sono certa che questa guerriera di pace riuscirà nella costruzione di una nuova pagina di vita e trasformerà insieme a Marco la malattia in “benattia”.
Fabiola incarna la sorellanza ed i suoi pilastri :
🌺L’impeccabilità della parola.
🌺Il non prendere nulla sul personale.
🌺Il non supporre nulla.
🌺Fare sempre del proprio meglio.
Questo è il canto che dedichiamo ad ogni bambino e alla sua mamma